Municipio di Pinzolo

Sede municipale del Comune di Pinzolo

© Nicola Giordano - Pixabay

Descrizione

Sede municipale

LA STORIA

La storia medioevale conosce Pinzolo attraverso documentazioni scritte a proposito della sua storia economica e religiosa e, soprattutto, per la presenza di una delle prime Compagnie dei Battuti del Trentino.

L'archivio comunale di Pinzolo conserva una recente versione dello statuto della Confraternita; tuttavia questa lasciò un nucleo di testimonianze ben ampia e concreta della sincerità e del fervore che la ispiravano. I Battuti erano una congregazione religiosa formata da laici dediti a una spiritualità fatta di lunghe orazioni, di severe penitenze e di azioni sociali e caritative.

L'importante chiesa cimiteriale dedicata oggi a San Vigilio ha origini antiche: risale probabilmente a prima del Mille; nei primi decenni del XVI secolo le sue dimensioni erano ridotte. Nel 1539 Simone Baschenis ne decorò la parete sud eseguendovi il famoso Trionfo della Morte con la relativa Danza Macabra, i Sette Peccati Capitali e la Resurrezione di Cristo.

Nel 1823 nacque a Pinzolo Nepomuceno Bolognini, una delle figure più rappresentative del Risorgimento trentino. Egli fondò, nel 1872, nel suo paese natale, la SAT e approfondì e divulgò la conoscenza della storia e del folclore di Pinzolo.

La Prima Guerra Mondiale ebbe uno dei suoi più importanti teatri nella zona dell'Adamello e non risparmiò il paese di Pinzolo, sia in temini di morti che di pericoli e di difficoltà. Peraltro la povertà dell'intera Val Rendena e di Pinzolo spinse molti dei loro abitanti ad abbandonare la propria terra, emigrando alla ricerca di lavoro e di un minimo di benessere. Agli arrotini di Pinzolo che girarono il mondo con la mola ad affilare coltelli e lame nel 1969 fu eretto un monumento all'ingresso del paese.

Coerentemente alla sua vocazione turistica e montana, nel 1952 fu costituito qui il primo Corpo di Soccorso Alpino (Tratto da APT Madonna di Campiglio Pinzolo Val Rendena)

Per approfondire: Il primo Novecento a Pinzolo, dicembre 2003

LE TRADIZIONI

La razza Rendena

La razza Rendena è una razza bovina autoctona dell'arco alpino, originaria dell'omonima vallata trentina, la Val Rendena, ed è tuttora allevata sul territorio nazionale per lo più nelle province di Trento, Padova e Vicenza.

Come la Grigio Alpina e la Valdostana, la razza Rendena è una delle poche tra le numerose razze autoctone italiane, che ha mantenuto e mantiene tuttora una significativa presenza locale, nonostante il sopravvento delle razze cosmopolite quali la razza Bruna e, soprattutto, la razza Frisona. In modo particolare la razza Rendena mantiene e sviluppa, nonostante la forte riduzione del patrimonio durante gli ultimi cinquant'anni, un'efficace organizzazione dei suoi allevatori, che le consente il riconoscimento di un certo ruolo nelle attività produttive zootecniche nazionali.

L'ente preposto al mantenimento, al miglioramento genetico e alla diffusione della razza è L'ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALLEVATORI BOVINI DI RAZZA RENDENA (A.N.A.RE.), istituita nel febbraio 1981 a richiesta della Commissione Tecnica Centrale del Libro Genealogico della razza Rendena. Il libro Genealogico è riconosciuto dal Ministero dell'Agricoltura e Foreste dal 23 giugno 1980, per iniziativa degli allevatori Trentini, Vicentini e Padovani riuniti nelle Sezioni di Razza delle rispettive Associazioni Provinciali Allevatori (A.P.A.).Il Libro Genealogico Nazionale conta, al 31 dicembre 1998, 3.627 vacche sotto controllo, numero tale da far ritenere la razza a rischio d'estinzione e di conseguenza sovvenzionabile (Regolamento Comunitario 20/78 del 1992), ai fini della salvaguardia delle "biodiversità", stabilita dalle direttive della P .A.C. (Politica Agricola Comunitaria). Negli ultimi anni il numero di bovine di razza Rendena sottoposte ai controlli funzionali, è leggermente aumentato. Nel caso dell'ultimo decennio, tale incremento è dovuto, probabilmente, sia al contributo comunitario che al miglioramento delle prestazioni produttive medie della razza, aumentate di circa 30 kg l'anno, per quanto riguarda tutte le vacche, e addirittura di circa 40 kg l'anno per quanto riguarda le sole bovine primipare iscritte al Libro Genealogico Nazionale.

Cenni storici

Una trattazione sulla razza Rendena non può trascurare la sua particolare e travagliata storia: da razza da latte più diffusa, assieme alla Grigio Alpina, del Nord Italia ai primi del 1900, all'attuale rischio d'estinzione (meno di 5.000 vacche sotto controllo).

Le prime documentazioni, su di un tipo di bovino affine all'attuale razza Rendena, risalgono all'inizio del 1700. Superate le pestilenze del 1700, ripopolati gli allevamenti della Val Rendena con l'importazione dalla Svizzera di capi con caratteristiche morfologiche molto simili e non riconducibili al ceppo della Bruna Alpina, la razza visse la sua maggior espansione nella seconda metà del 1800, allorquando era allevata in tutta la Lombardia e nel territorio delle Tre Venezie, dove si contavano circa 800.000 capi. Fu durante il 1900, che il patrimonio della razza cominciò a contrarsi, a causa delle linee politiche adottate che la volevano sostituita con la razza Bruna Svizzera.È documentato che nel 1946, già dopo trent'anni di politiche ostili all'allevamento delle razze autoctone, la razza, allora chiamata "Bruna di Rendena", contava nel Triveneto ancora più di 80.000 capi. In appena mezzo secolo il patrimonio s'era quindi ridotto di oltre 10 volte.A testimonianza dell'accanimento delle istituzioni, nel secolo scorso, contro questa razza e contro tutte le razze autoctone italiane, si riportano alcuni avvenimenti storici:- 1910: l'Ispettorato Zootecnico della Provincia di Trento decreta l'eliminazione dal territorio provinciale dei bovini di razza Rendena tramite l'incrocio di sostituzione, mediante l'ammissione alla monta naturale dei soli tori Bruno Alpini. La realizzazione piena di tale progetto non riuscì in conseguenza allo scoppio del Primo Conflitto Mondiale che distolse l'attenzione politica dalle questioni agricolo-zootecniche.- 1929: emanazione della legge 20.06.29 che stabilisce la concessione di aiuti economici consistenti per l'introduzione in Italia delle razze estere migliorate quali la Bruna Svizzera e la Frisona Olandese, a scapito delle numerose razze autoctone italiane.- 1931: al Convegno di Padova per lo sviluppo e il miglioramento del patrimonio zootecnico delle Tre Venezie, si decreta la totale eliminazione delle razze autoctone italiane non concedendo più l'autorizzazione alla monta se non praticata con tori delle razze estere migliorate. Nel 1937 è però concessa la deroga per l'allevamento d'alcuni nuclei di qualche migliaio di capi nelle province di Trento, Padova e Vicenza.- 1941: al Convegno di Merano (BZ), organizzato con il preciso scopo di aggiornare le direttive del Convegno di Padova del 1931, è sancita l'abolizione di tutte le deroghe per l'allevamento delle razze autoctone. In questo caso, fu il Secondo Conflitto Mondiale a far gravitare le attenzioni della politica su altre questioni prioritarie e quindi ad impedire la scomparsa dagli allevamenti dei bovini di razza Rendena.In definitiva, la casualità storico-temporale dei conflitti mondiali, spostando le attenzioni politiche dalle questioni non prioritarie quali quelle agricolo-zootecniche, ha consentito alla razza Rendena di sopravvivere fino agli anni '50-'60, dopodiché gli allevatori, organizzatisi prima a Trento e poi in Veneto nelle rispettive Sezioni di razza, hanno ottenuto dalle istituzioni competenti il riconoscimento dell'allevamento della loro razza.

Caratteristiche della razza Rendena

La razza Rendena molto probabilmente discende, come la Frisona, la Reggiana, la Modenese, la Piemontese e la Valdostana Pezzata Rossa, dal ceppo del "Bos Longifrons"; appartiene quindi al gruppo delle così dette "Razze di Pianura", che si distinguono dalle "Razze Alpine" discendenti dal "Bos Frontosus" (quali Pezzate Rosse Italiana e d'Oropa, Grigio Alpina, Pinzgau, Tarina e Bruna) per la finezza del rivestimento cutaneo, della testa e della struttura ossea in generale, per la taglia ridotta e la duplice attitudine alla produzione di latte e carne.

Oggi queste razze, originariamente parenti, si presentano spiccatamente diverse dal punto di vista morfologico, sicuramente per la ormai secolare selezione e specializzazione impostate su di loro dall'uomo.I caratteri morfologici distintivi della razza Rendena, secondo lo standard morfologico riportato nelle norme tecniche del Libro Genealogico (Tabella 5) si riconducono a mole medio-leggera con spiccata finezza della struttura ossea e del rivestimento cutaneo, buona conformazione muscolare e mantello castano scuro, con ricercata riga mulina sul dorso.

Per quanto riguarda le attitudini produttive, le bovine di razza Rendena producono mediamente 45 quintali di latte per lattazione, con titoli di grasso e proteina rispettivamente intorno al 3.5% e 3.2%. La razza è allevata nelle più diverse tipologie d’azienda: dalle moderne aziende di pianura alle più tradizionali aziende di montagna. Pratica ancora molto diffusa per questa razza è il pascolamento delle essenze foraggere prodotte dai masi e dalle praterie di alta montagna, tramite l’alpeggio estivo, che interessa quasi tutto il giovane bestiame e oltre la metà delle vacche iscritte ai controlli funzionali. Il livello tecnico medio delle aziende interessate è sicuramente inferiore rispetto a quello delle razze specializzate da latte, in quanto spesso gli allevatori sfruttano la rusticità e la frugalità alimentare della razza per puntare sulla minimizzazione dei costi di produzione più che sulla quantità di latte prodotto. La razza sembra adattarsi ottimamente alle varie tipologie d’allevamento, dalle più intensive alle più tradizionali. La razza Rendena è caratterizzata da una mediana d’interparto di 95 giorni con un numero medio di lattazioni per vacca pari a 3.55. Le bovine Rendena garantiscono quindi in media la nascita di un vitello ogni anno ed esibiscono una durata in carriera almeno doppia rispetto a quella delle bovine di razze più specializzate quali Bruna e Frisona. La buona fertilità e capacità riproduttiva permettono il mantenimento della stagionalità dei parti che sono concentrati nei mesi autunnali in relazione alla diffusissima pratica dell’alpeggio nei mesi estivi anche delle vacche in latte.

Per informazioni: ANARE - Associazione Nazionale Allevatori Bovini di Razza Rendena (via delle Bettine, 40 - 38100 Trento) - info@anare.it

L'enogastronomia

La Val Rendena è tra l’altro una valle alpina che dal punto di vista dell’enogastronomia sa soddisfare i palati più esigenti, prodotti legati a vocazioni precise del territorio: agricoltura e allevamento in particolare. La Val Rendena è oggi sinonimo di salumi e insaccati di qualità perché lavorati dagli artigiani salumai con le tecniche apprese dai padri.

Una tradizione che risale al 1800 quando i contadini di Strembo, Caderzone, Giustino, emigravano durante i mesi dell’inverno in pianura, in particolare nel Mantovano, dove lavorando come “mazzin” (addetti alla macellazione) o come garzoni presso salumieri locali impararono l’arte di produrre gli insaccati. Innanzitutto il famoso “salame all’aglio”: proprio l’aglio era e rimane il segreto dei salumai rendeneri di ieri e di oggi perché conferisce agli insaccati un aroma particolare. Il salame all’aglio è un insaccato stagionato di puro maiale: per produrlo i salumai locali utilizzano esclusivamente la polpa scelta. Con la stessa materia prima, ma con una tecnica di insaccaggio differente si producono i salamini all’aglio del tipo “cacciatore”. Un altro salume tipico della Val Rendena è la “Salamella all’aglio” per la cui preparazione vengono utilizzati quei tagli che non entrano nella preparazione dei “salami”.

E sempre dalla carne di maiale i salumai della Rendena ricavano anche ottimi “cotechini”, “lardo aromatizzato”, “mortandele”, polpette di carne di maiale mescolata con il fegato insieme a diverse spezie, “Pancetta nostrana agliata”.Ancora più antica è invece la tradizione agro – pastorale della Rendena, dove ogni comunità ha un proprio alpeggio e il territorio per il pascolo viene gestito attraverso gli istituti antichissimi (risalgono al 1300) delle “Regole” e degli “usi civici” secondo criteri che hanno consentito il rinnovarsi naturale delle risorse.

A questa tradizione è legato un altro prodotto tipico, la “spressa”, uno dei più antichi formaggi della montagna trentina, che nasce da un’arte casearia che ha radici antichissime, anche oggi risultato di lavorazioni assolutamente artigianali, basate sul latte prodotto da bestie allevate con fieno di montagna, quelle della famosa “Razza Rendena”. La spressa è un formaggio magro perché in passato i contadini “smagravano” volutamente il latte per poter ricavare il maggior quantitativo di burro. Questo formaggio si ottiene utilizzando il latte di due mungiture successive che viene poi messo ad affiorare. La pasta si presenta di colore giallo – paglierino con una occhiatura sparsa di media grandezza. Una prova della sua lavorazione autenticamente artigianale è data dall’aspetto esterno della forma che spesso presenta irregolarità sulla crosta. La produzione della spressa si concentra nel caseificio sociale della valle e dove nei mesi dell’autunno e dell’inverno si produce anche ottimo “grana trentino”.

Richiede invece un po’ di fatica raccogliere un’erba particolare, il “radic de l’ors”, un radicchio selvatico dal sapore amarognolo che cresce sui 2.000 metri ai bordi delle nevi depositate dopo essere scivolate a valle sotto forma di valanga. Si conserva in agrodolce ed è utilizzato in molte ricette tipiche.

Fra i dolci tipici della Val Rendena, molto semplici da preparare anche in città si possono citare la torta di carote e la torta di fregoloti, quest’ultima preparata aggiungendo all’impasto un etto di mandorle finemente tritate. Un dolce ad alto contenuto calorico, ideale dopo una giornata di sport sulla neve.

Per informazioni: Trentino Agricoltura

Il trato Marzo

Pinzolo è un paese ancora oggi ancorato alle tradizioni che ne costituiscono l'identità. Fra le tradizioni più vive quella del "Trato marzo", le cui origini si perdono nella notte dei tempi, nei riti agresti che celebrano la fine dell'inverno e le ripresa della vita primaverile.

Le ultime due sere di febbraio e la prima di marzo - da cui il nome "Trato marzo", cioè "È arrivato marzo" -, quando il freddo diventa meno pungente, le giornate si allungano e la natura si desta, i giovani salgono sull'altura delle Masere, nella zona ad est del paese, accendono un falò e proclamano al paese le coppie usando uno speciale megafono, che rende udibile in tutto l'abitato la proclamazione degli amori.

"Trato marzo su questa terra, per maritare una giovane, bela, bela" ("È arrivato marzo per sposare una ragazza bellissima") - recita il capogruppo - "Chi ela o chi no ela?" ("Chi è e chi non è?") - chiedono gli altri giovani presenti. Il capogruppo chiama una nubile del paese indicandola con il nome di battesimo e il soprannome di famiglia e poi il gruppo riprende: "A chi l'ente mai da dare?" ("Con chi si deve sposare?"). Il capogruppo risponde individuando uno scapolo a cui aggiunge: "Ca l'è da maritare!" ("Il quale deve ancora sposarsi!") e il gruppo conclude in coro: "Totala, totala, totala!" ("Sposala, sposala, sposala!"). Il tutto prosegue per circa un'ora fino a quando nubili e celibi di tutte le età hanno trovano compagno o compagna; nel frattempo vengono serviti vin brulè, polenta e salsicce a quanti accorrono sull'altura.

Nelle prime due sere vengono create coppie buffe: la più bella ragazza è invitata a sposare un vecchio, magari zoppo e avaro, oppure una novantenne zitella senza denti è accoppiata con un aitante latin lover. La terza sera, infine, vengono svelate le coppie reali, di giovani fidanzati prossimi al matrimonio: è l'ufficializzazione nei confronti della comunità paesana di un legame d'amore. A questo punto dall'altura vengono lanciate ciocche di legno e dal percorso che esse compiono si traggono auspici sulla felicità dell'unione.L'usanza o, come si dice in Rendena, la "costumanza", è stata studiata per primo da Nepomuceno Bolognini sul finire del secolo scorso e presentata nel suo testo "Usi e costumi del Trentino".

Come la natura ritorna alla vita dopo i rigori invernali, anche nelle persone riesplodono la voglia e il gusto di vivere e il "Trato marzo" pinzolese ne è una manifestazione.

Il Carnevale Asburgico

Madonna di Campiglio è stata protagonista di un mondo magico. E' il mondo romantico e sfavillante della Vienna di Francesco Giuseppe e della sua bellissima consorte, Elisabetta di Wittelsbach, Sissi per la storia e per il mito.

Sul finire dell'Ottocento Campiglio è già una delle più belle località di villeggiatura dell'Impero Asburgico. Sissi e Franz la eleggono come luogo privilegiato per passare insieme giornate spensierate, lontani dal clamore di Vienna. Oggi, nelle stesse sale che videro la coppia imperiale e la loro corte vivere momenti indimenticabili, si celebra ogni anno il Gran Ballo dell'Imperatore, in onore della "Principessa Sissi". Nel periodo di Carnevale, il ballo evoca i fasti di quei giorni, di quel mondo magico. Sulle note di "Sul bel Danubio blu" quegli istanti si materializzano e rivivono ancora.

Sissi giunge in Trentino sul finire dell'estate del 1889. Ha scelto Madonna di Campiglio per un breve soggiorno dove poter riposare dopo un periodo particolarmente drammatico della sua vita. All'epoca Campiglio è già un’affermata stazione di villeggiatura, frequentata da nobili e ricchi signori europei, amanti della caccia e degli incredibili spettacoli offerti dalle Dolomiti di Brenta. Il luogo la colpisce talmente che si ripromette di tornare. La montagna non è soltanto aria pura e splendidi paesaggi per questa donna così sensibile alle poesia: è soprattutto una fonte di ispirazione e di suggestione letteraria.Così, sei anni dopo, è la coppia imperiale a giungere in Trentino. Sissi e Francesco Giuseppe, accolti dai villaggi in festa e da fuochi d'artificio fra le montagne, sono ospiti del Grand Hotel Des Alpes. Nelle grandi sale dalle volte in legno del lussuoso albergo risuonano i passi leggeri delle dame di compagnia dell'Imperatrice e gli stivali degli aiutanti di campo dell'Imperatore, sfilano le loro divise variopinte, si assiste ai rituali della corte che ha accompagnato la coppia. Un angolo della dolce e spensierata Vienna è giunto fin quassù, tra cieli tersi e boschi verdissimi. Campiglio resterà nel cuore dei due monarchi. Ma l'eco di quei momenti, di quel mondo, oggi giunge fino a noi materializzandosi nelle celebrazioni del Carnevale Asburgico.

Il Carnevale Asburgico è una settimana di eventi che vede l'arrivo degli ospiti imperiali in carrozza, scortati dalle guardie a cavallo. Rivivono gli spettacoli pirotecnici di allora e i brindisi che accolsero i due personaggi. Durante la settimana si moltiplicano le feste al Salone Hofer del Grand Hotel Des Alpes, lo stesso che ospitò la coppia. Ma il momento clou del Carnevale è il Gran Ballo dell'Imperatore quando Sissi, elegante e luminosa come sempre, apre le danze fra due ali di Ussari e Dragoni. Sono questi i momenti in cui rivive la grande tradizione viennese del ballo, del "Caffè concerto" e della Redoute, il ballo in maschera. Con i loro indimenticabili valzer, Strauss padre e figlio furono i cantori ufficiali di un mondo vorticoso. Ancora oggi la settimana di Carnevale è teatro del più importante ricevimento viennese: il famosissimo Gran Ballo dell'Opera, appuntamento atteso e ambito, oggi come allora. La stessa Sissi, nella primavera del 1860, volle organizzare ben sei balli di seguito in soli due mesi. E famoso è il ballo alla Società della Musica, la notte di Martedì Grasso del 1874, a cui l'imperatrice si reca in incognito, mascherata, e dove nessuno la riconosce. Per una settimana Madonna di Campiglio respira queste magiche atmosfere, celebrando l’ "Eroina del Sogno", come la definì D' Annunzio, protagonista incontrastata di un mondo da favola.

Per informazioni: info@carnevaleasburgico.com

LE LEGGENDE

Val Genova, Diavoli e streghe in esilio

Che nessuno, al termine del Concilio di Trento, sapesse dove mettere tutte le streghe e tutti i diavoli che fino ad allora avevano imperversato nelle valli trentine, lo si può anche capire. Non si riesce invece a comprendere per quale motivo a qualcuno venne in mente di relegarli in perpetuo esilio proprio in VaI Genova, in quella bellissima valle percorsa da un allegro torrente, che raccoglie l'acqua canterina di decine e decine di cascate grandi e piccole.

Fortuna volle che ci pensò Iddio a riparare almeno in parte alle decisioni dei Padri conciliari e streghe e diavoli vennero immediatamente trasformati in rocce; per parte sua, ci pensò il buon Nepomuceno Bolognini, raccoglitore e narratore di antiche leggende, a dare un nome e un volto a ognuna di quelle rupi.

Ed ecco, allora, Zampa da GaI, un enorme masso erratico che all'apparenza se ne sta immobile all'ingresso della valle, ma che non appena scorge di lontano un cristiano in arrivo, corre di filato da Belajàl, il re dei dèmoni, ad avvisarlo del malcapitato. Quella di Belajàl, capo dei diavoli, signore delle streghe, male dei mali, è la roccia più grande che si alza nei pressi della cascata del Nardìs. Accanto gli sta il fido Pontiròl, sempre pronto a obbedire al minimo cenno del suo padrone. Tocca a lui correre di qui e di là a portare gli ordini di Belajàl, convocare ora questa, ora quella strega, dirgli delle povere anime cadute nelle trappole dell'inferno, farlo ghignare di gioia crudele al racconto dei cento e cento scherzi combinati ai danni degli uomini.
E che dire di Schena da mul? Quando s'imbatte in un viandante che procede lento e stanco su per la stradina della valle, gli si fa incontro gentile e premuroso, lo convince a montargli in groppa per risparmiarsi la fatica del viaggio e... via di filato tra le fiamme dell'inferno!
Ai Piani di Genova, un piccolo stagno formato da un' ansa del torrente bagna i piedi di alcuni massi: sono gli specchi delle streghe, che qui vengono ad agghindarsi e a riavviarsi i lerci capelli, prima di correre a celebrare chissà dove i loro sabba satanici.
Qui troviamo Calcaròt, il demonio che perseguita i ghiottoni torturandoli con quei terribili incubi notturni che ti fanno svegliare di soprassalto, col cuore in gola e un freddo sudore giù per la schiena. Là, invece, si erge, pronto a volare, un altro essere diabolico: è Coa da cavàl, mezzo basilisco e mezzo cavallo, che trascina nell'aria le anime degli imbroglioni e dei lussuriosi. Accanto a lui vediamo Manaròt, il subdolo demonio che si diverte a indurre in tentazione i boscaioli... (“Su, forza... quel boschetto è del Comune, perciò di tutti e di nessuno... taglia quegli alberi, chi vuoi
che ti veda?”).
In VaI Genova è esiliato anche l'Orco, pure lui trasformato in roccia: per secoli s'è divertito a spaventare i bambini disobbedienti e a tirar brutti scherzi alle fanciulle sventate. Adesso se ne sta muto e impotente, lui che, sotto sotto, proprio cattivo non sarebbe!
Di ben altra stoffa è l'orrendo Palpapegastro, che solo grazie ai malvagi sortilegi di cui va fiero è riuscito alla fine a render cieca una strega per convincerla a prenderlo come marito. Poverino, che brutta fine ha fatto anche lui: torturato da una moglie nauseante e bisbetica e da un nugolo di figlie altrettanto fastidiose e linguacciute, si sfoga andando a caccia di pastori e boscaioli e seminando zizzania fra tutti coloro che gli capitano a tiro.
Sfuggente come un'anguilla e imprevedibile come il cielo di marzo è Calzetta rossa, diavoletto che ha fatto del furto una ragione di vita e della truffa un'arte. E poi c'è il Salvanèl, essere della foresta, figlio della natura, ghiribizzo del creato, che ama folleggiare con gli scherzi, abbagliare i creduloni, prender per il naso chi ci casca.
Ed ecco le streghe: Aga, orrenda vecchia fattucchiera che sa leggere le carte o le linee della mano predicendo il futuro, ma che non è stata capace di prevedere quale brutta figlia - di nome Niaga -sarebbe nata da un suo lontano connubio con Zampa da gaI!
Forca, grassa, sudicia, con le unghie forti come artigli, che s'arrampica sui muri delle case diroccate e da lì, di notte, convince i passanti a rubare, ad appropriarsi delle cose d'altri, a prendere, insomma, la strada che conduce diritta alla... forca!
Malora, sempre allegra, sempre burlona, sempre... ubriaca. Guai al malcapitato che osasse guardarla in volto: vedrebbe una maschera oscena e bavosa e subito sarebbe preso dalla voglia di affogare il terrore nel vino e nell'acquavite...
Baòrca, la strega con sei dita per mano, con una grossa gobba a punta sulla schiena e una uguale sul davanti... se càpiti tra le sue grinfie, tutti i diavoli della valle entreranno nel tuo corpo e ti faranno fare le cose più immonde e sconce.
Pebordù ha zoccoli al posto dei piedi e quindi la riconosci sùbito e puoi girare alla larga. Ma se, per sbaglio, i tuoi occhi incontrano i suoi, per te è finita: tarantolato da capo a piedi, saresti costretto a danzare senza mai fermarti, fuggendo di qua e di là, in preda alle smanie più feroci, finché il volo in un burrone porrebbe fine ai tuoi patimenti.
Infine - ma non ultima - ecco la Grignòta, che se posa i suoi occhiacci su di te, vieni preso da una gran voglia di ridere e di far scherzi al prossimo. Ma se per caso ti capiterà di burlarti d’un buon fraticello o di un vecchio prete di campagna, i loro anatemi bruceranno la tua anima con una sola vampata e per te non resterebbe che la pace... dell'inferno!
Fortuna vuole che tutti questi mostri, oggi, siano disseminati in VaI Genova sottoforma di rocce inoffensive. Comunque, a scanso di brutte avventure, quando ti troverai a passare di lì, parla sottovoce, non disturbare la quiete di quei posti e se proprio vuoi riposarti all'ombra fresca di un masso, non nominare il nome del Diavolo invano!

La strega casara

Stava ormai camminando da più di due ore, la vecchina. Partita da Carisolo nel tardo pomeriggio, portando con se solo due tozzi di pane secco, voleva giungere fino in fondo alla Val Genova, là dove i pastori accudivano al bestiame... era l'epoca, quella, in cui gli uomini portavano al pascolo le mucche solo per averne del buon latte: nessuno ancora conosceva i segreti per farne del burro, del formaggio o della ricotta. Ma l'anziana donna doveva accontentarsi: più povera ancora d'un uccellino affamato, sapeva di poter mangiare quei due pezzi di pane duro come il sasso solo ammorbidendoli con un po' di latte, ed ecco il motivo di quella lunga camminata.
La notte scese improvvisa, cogliendo la viandante nel punto più stretto della valle, là dove il sentierino si perde nell'intrico del sottobosco... era la «porta delle streghe», quella, e infatti...
- Dove stai andando, vecchia? - berciò da un albero una civetta, che subito dopo balzò a terra trasformandosi in un'orrenda strega. La poveretta si fermò con un balzo al cuore: non aveva mai visto una strega, lei, e quella lì ai piedi dell'albero era veramente brutta, cenciosa e sporca, con una lunga scopa in mano.
- Vado dai pastori a farmi dare un po' di latte... sono senza denti e il poco pane che possiedo è duro, troppo duro...
- Fammi assaggiare! - ordinò quell'altra facendosi ancor più vicina.
Afferrò il pane secco che la vecchia le porgeva e... - Ma è duro sul serio, sembra di pietra! Su, vieni con la strega casàra!
Una forza misteriosa obbligò l'anziana donna a montare in groppa alla scopa: aggrappandosi al mantellaccio unto e lacero della strega, vide il terreno allontanarsi veloce sotto di lei, le punte degli alberi farsi lontane e il freddo della notte l'avvolse, obbligandola a chiudere gli occhi. Dopo un istante, un solo piccolissimo istante, i suoi piedi toccarono nuovamente terra e...
- Ecco, siamo arrivate sui pascoli della Val Genova - disse la strega.
- Scendi e aspettami qui!
L'orrendo mostro tornò di lì a poco con un secchiello di latte. Fece cenno alla vecchina di avvicinarsi e di sedere ai piedi d'un masso di granito. Poi cominciò a lavorare. Con una mano scremò il latte, deponendo con cura la panna morbida e fresca in una piccola zàngola, che prese a cullare avanti e indietro, cantando nenie misteriose... «La luna ciara, el bosco scuro, zìngola zàngola, ho fato el burro»... Finito di cantare, la strega aprì l'arnese e ne trasse una pasta bianca, tenera come la cera: sempre usando le mani la squadrò per bene e sul panetto così ottenuto disegnò con un'unghia il profilo delle montagne attorno e la luna alta nel cielo.
- Ecco, questo è il burro. Sentirai com'è buono, col tuo pane vecchio. Torna a casa e racconta pure alle tue amiche come si fa il burro con la panna: se vuoi sapere, invece, come si cuoce il latte per averne del formaggio, fatti vedere domani sera al solito posto, alla «porta delle streghe». Ciao...
Il giorno dopo l'anziana poverella arrivò per tempo all'appuntamento e con un nuovo volo in cielo capitò ai piedi del macigno della notte precedente. Lì la strega accese un bel fuoco sotto a un enorme pentolone, in cui versò alcuni secchi di latte, che prese a mescolare adagio adagio. Quando, poi, cominciò a bollire, vi aggiunse alcune gocce di aceto mettendosi a gridare:
- Présame… Présame!
...ed ecco il miracolo: il latte bollente cominciò a rapprendersi in un cuore biancastro, sodo e profumato. La strega lo tolse dal paiuolo, lo infilò in una forma circolare, che strinse con forza lasciando cadere a terra il liquido superfluo, e...
- Il formaggio è pronto! Assaggialo e sentirai che buono. Va' pure a casa e racconta alle amiche come si fa il formaggio e poi torna domani sera, che ti farò vedere come dal siero si ricava la poìna...
La notte seguente la strega insegnò alla vecchina a fare la ricotta usando il siero del latte, poi la congedò dicendole:
- E finalmente domani sera potrò insegnarti a ricavare lo zucchero da ciò che rimane del latte lavorato!
Ma il giorno dopo un diluvio s'abbatte su Carisolo e sulla Val Genova, per cui la vecchietta pensò bene di restarsene chiusa in casa, sbocconcellando il formaggio che era riuscita a fare da se, seguendo le indicazioni della strega. Tornò in valle la sera seguente, ma...
- Mi dispiace, carina - le disse la strega balzando a terra dal suo albero, - ma hai perso l'occasione di imparare come si può avere del buon zucchero dal latte!
- Ieri sera pioveva a dirotto... come facevo a muovermi?
- Quando piove, piove – si mise a cantare la strega casara – quando fiocca, fiocca… sol quando tira vento, allor fa brutto tempo…

El Tof del Mal Neò

Signor Giudice, non so proprio come sia successo - farfugliò il buon Bortolo, al cospetto del giudice di Stenico. – Cioè, so bene quello che ho fatto, ma vi giuro, io non volevo...
- Bortolo della Todesca di Val Genova – lo interruppe il giudice - avete o non avete ucciso vostro nipote Giovanni?
- Sì, l'ho ucciso io...
- Lo avete o non lo avete gettato nel burrone che si apre sul Sarca tra Fontanabona e la Todesca?
- Sì, l'ho fatto - singhiozzò il povero vecchio, torcendosi una mano nell'altra. - Ma voi dovete capire... dovete lasciarmi spiegare...
- E spiegatevi, allora!
- Ecco, Giovanni è... era il mio unico nipote e io ero il suo unico zio. Mio padre, alla sua morte, aveva lasciato metà delle terre al padre di Giovanni, il buon Giuseppe, e metà a me. Alla morte di Giuseppe, la sua parte passò al figlio e... e da quel giorno non ho più avuto pace. Non era cattivo, Giovanni, no, era solo scapestrato e soprattutto invidioso dei miei poderi, delle mie vacche, dei miei boschi. Sapete: s fossi morto io, non avendo figli, lui avrebbe ereditato tutto... Non passava giorno che non mi tirasse qualche brutto scherzo: sapeste, signor Giudice, quanto buon latte ho dovuto buttar via perché sporco degli escrementi dell'asino di Giovanni! E quanti alberi sono stati misteriosamente segati e abbattuti di notte ... quanta erba dei miei prati è andata bruciata... Ma Giovanni era mio nipote, non potevo arrabbiarmi con lui... Mi sfogavo con gli amici alla locanda: piangevo di stizza, mi mangiavo le mani per la rabbia ma solo questo. Io non avrei torto un capello, al figlio di mio fratello! Poi un giorno lo incontro proprio sull'orlo del burrone di cui parlava lei signor Giudice: mi vede, mi viene incontro con una smorfia cattiva e strana in volto, afferra per un orecchio il vitellino che stavo riportando alle stalle e lo spinge di sotto! Così, senza dire una parola, solo per il gusto di vedere le lacrime riempire i miei occhi. Anche quella volta ho sopportato, ho taciuto, ho scosso la testa e me ne sono tornato a casa da solo, senza vitello. Qualche tempo dopo, guarda caso nel medesimo punto della valle, ci incontriamo di nuovo e lui, Giovanni, è ubriaco dalla testa ai piedi: non sa più nemmeno parlare, da tanto vino ha bevuto! Stringe un bastone in mano: lo alza su di me per picchiarmi senza motivo e io lo afferro, lo tengo stretto stretto e lo spingo indietro. È caduto di sotto senza nemmeno urlare: forse non se n'è nemmeno reso conto, povero ragazzo... E morto così, Giovanni... l'ho ucciso in questo modo...
Bortolo tacque e quel nodo doloroso in gola finalmente si sciolse in un pianto dirotto.
Anche il giudice rimase in silenzio: guardando alle spalle dell'imputato incontrò i volti seri della gente di Rendena e sui loro occhi lesse la verità: il buon vecchio Bortolo in vita sua non aveva mentito.
- Bortolo della Todesca di Val Genova - esclamò dopo un lungo silenzio - per l'autorità concessami dal principe vescovo di Trento io ti assolvo dall'accusa di aver deliberatamente ucciso Giovanni tuo nipote e ti comando di tornartene nella tua valle, a vivere in pace gli anni che ti restano!
E così avvenne: Bortolo, circondato dall'affetto degli amici, ritornò in Val Genova e lì trascorse tranquillo gli ultimi anni di vita. Fece in modo, però, di non dover più passare da quel maledetto burrone, che da allora prese il nome di Tof del Mal Neò.

Maroch de l'ora

- L' ho visto! L'ho visto!
La vecchietta entrò urlando nella grande chiesa di Pinzolo, interrompendo la messa che era arrivata già all'Offertorio. Ci volle del bello e del buono, ma alla fine qualcuno riuscì a calmarla, a farla uscire dalla porta della sacristia e il sacro rito poté giungere al termine. Poi, subito dopo la benedizione, la folla si riversò sul sagrato, incuriosita da quello che la vecchina aveva da raccontare.
- Ma certo che l'ho visto!
- E che cosa, santo cielo! - esclamò il sindaco di Pinzolo tutto rosso in viso.
- Allora, statemi ad ascoltare. Come ogni domenica, stamane mi sveglio presto, lascio la mia casa di Mavignola e prendo il sentiero che scende a Pinzolo recitando il rosario. Quand'ecco, a una svolta del viottolo, che ti vedo, per terra? Una... due... cinque... tante monete d'oro! Mi chino per raccoglierne una... era proprio d'oro zecchino e luccicante!...faccio per infilarmela in tasca e prenderne una seconda, quando un colpo di vento... vuuummm!... mi toglie la moneta di mano e se la porta via lontana! Solo allora alzo gli occhi e lassù, all'altezza della Cima Gaiarda, appollaiato in vetta a un grosso macigno, scorgo uno strano figuro: vestito di rosso, aveva lunghi capelli untuosi e sporchi, dai quali spuntavano due piccoli cornetti. Gli occhi, poi, ardenti come il fuoco, mi scrutavano dall'alto, mentre le mani si curvavano con terribili artigli e i piedi... oh mio dio, se ci penso... i piedi erano zoccoli di caprone!
- Il Diavolo... ha visto il Diavolo!
- Già - proseguì la vecchietta, - era proprio il Diavolo che si divertiva con me: prima mi invitava a raccogliere una delle monete; poi, con un ghigno tremendo, me la soffiava via come fosse una piuma! E così di sèguito, fino a che mi sono stancata e ho preso di corsa la direzione di Pinzolo. .
- E puoi ben dire di esser stata fortunata - intervenne il parroco; - chissà che cosa poteva succederti, visto che hai disturbato il Demonio mentre stava nascondendo il suo tesoro!
- Cosa? - esclamarono cento voci intorno.
- Ma sì: ogni notte Satana se ne va in giro a depredare ville, castelli e palazzi. Poi, prima dell'alba, corre a nascondere tutto l'oro rubato proprio sotto al grosso macigno ai piedi della Cima Gaiarda. Solleva la rupe come fosse di paglia e getta il maltolto in un buco profondo che, si dice, giunge fino all'Inferno. Le monete che hai trovato sulla strada, deve averle perse in volo e quando sei arrivata col rosario in mano, al Diavolo non è parso vero di potersi prender gioco di un'anima in più!
La rivelazione del parroco, oltre a incutere ancor più terrore alla povera donna, mise in agitazione gli uomini di Pinzolo. «Ma come – si dissero poi alla taverna, - poco distante da qui è nascosto un tesoro, e noi rimaniamo con le mani in mano? Su, forza: stanotte prendiamo zappe e vanghe, saliamo al grosso masso e scaviamo...».
Così fecero, i poveretti. Col favore delle tenebre e certi che Satana, in quelle ore, era indaffarato a compiere le sue malefatte in giro per il mondo, presero a scavare tutt'attorno al macigno (e ancor oggi quelle buche sono lì, a provare quanto sia vero questo racconto). Non si accorsero, però, che la notte trascorreva veloce e vennero sorpresi dall'alba con gli attrezzi in mano. All'improvviso, dalla cima di una roccia lì vicino cominciò a soffiare un forte vento... vuuummmm... vuuummmm... che afferrò picconi e badili facendoli volare in aria e scaraventandoli giù a valle.
- È l'òra del Diavolo! - urlarono gli uomini di Pinzolo, che abbandonarono l'impresa e scapparono di filato a casa mormorando giaculatorie e avemarie.
Da quel giorno il sasso che copriva l'ingresso dell'Inferno venne chiamato Maròch de l'òra, mentre la roccia dalla quale aveva spirato il vento diabolico prese il nome di Crozzon del Diàol.
Ma la leggenda non termina qui. I vecchi giurano che la vecchina, o quanto meno il suo spirito, vive ancor oggi nei pressi del Maròch de l'òra: quand'è notte, il fantasma invita i rari vi andanti a farsi più vicino e a raccoglier da terra alcune monete d'oro. Se qualcuno ci prova, ecco giungere il solito sbuffo di vento che... vuuummmm... fa sparire il tesoro e manda a gambe all'aria il malcapitato.

Monte Spinale, "Gli orti della Regina"

Molto e molto tempo fa, quando la Rendena era abitata da piccole comunità d'uomini dediti alla caccia e alla pastorizia, la tranquillità di quei luoghi venne rotta dall'arrivo di una strana comitiva. Sarà stato un centinaio d'uomini in tutto: se erano soldati, le loro divise lacere e sporche stavano a indicare un alto grado di povertà. Se erano pellegrini, che ci stavano a fare lance, archi e frecce nelle loro mani? Silenziosi e scuri in volto, gli sconosciuti raggiunsero quella che oggi noi chiamiamo Madonna di Campiglio, e lì lasciarono la strada maestra per inerpicarsi su per il Monte Spinale.
I Rendenesi assistettero impassibili alla sfilata di quella lunga teoria di stranieri vestiti male e armati ancor peggio. E quale fu la meraviglia quando, in mezzo a loro, scorsero una bellissima donna coperta di abiti un tempo sontuosi, che cavalcava uno stupendo cavallo bianco! Il volto triste della regina - perché tale doveva essere il suo rango -e quello preoccupato degli uomini che chiudevano la fila (continuavano a girarsi indietro, come temendo di vedere da un momento all'altro le schiere di un esercito nemico) davano l'impressione che quella gente stesse fuggendo da chissà che cosa.
Piano piano, passo dopo passo, come portassero in cuore il peso di un' enorme angoscia, i soldati e la loro regina salirono fin quasi in vetta allo Spinale e solo quando furono ai piedi del Mondifrà...
-Nostra signora -disse quello che pareva il capo del triste esercito - non sarebbe meglio fermarci quassù per far riposare gli uomini e i cavalli?
La donna misteriosa si riscosse dal torpore dei mille pensieri che la agitavano e si guardò in giro.
-Là! -disse semplicemente, indicando con la mano un pianoro difeso da alcuni massi. E in effetti quello era il luogo ideale per chi voleva nascondersi: protetto da un lato dalla montagna e dall'altro da un bastione roccioso naturale, conservava ancora un po' di terra fertile coperta d'erba e accanto una sorgente sgorgava allegra.
I soldati si diedero subito da fare: alcuni corsero nel bosco più sotto e tagliarono una gran quantità di tronchi, coi quali costruirono in breve alcune capanne e rinforzarono le difese. Altri deviarono l'acqua della fonte per farla giungere al praticello, nel quale piantarono semi di fagioli, fave e cipolline. Altri ancora armarono gli archi e si diedero alla caccia, procurando carne fresca per la regina e il suo sèguito.
L'esercito straniero si fermò sul Monte Spinale per alcuni mesi: affascinati dal luogo tranquillo e facilmente difendibile, uomini e cavalli si riposarono, mentre la loro regina se ne stava sempre chiusa al buio della sua capanna.
Poi un giorno scomparvero: lasciarono il pianoro di notte, senza toccare capanne, palizzate e prato coltivato. Il buio della storia li inghiottì e di loro non si seppe più nulla.
A ricordo di quello strano episodio, rimane ancor oggi quel luogo, che porta il nome di «Orti della regina»: e chi lo raggiunge in tarda primavera, può raccogliere delle ottime cipolline selvatiche, con cui insaporire la propria tavola.

Il sasso del Bargianèla

A Madonna di Campiglio tutti conoscevano il Bargianèla e tutti apprezzavano il buon vino che mesceva nella sua osteria al Palù. Il Bargianèla e la sua locanda erano diventati, ormai, due vere e proprie istituzioni della zona: chi voleva trascorrere una serata in compagnia di ottimo vino e di storie mirabolanti, non doveva far altro che salire al Palù, entrare nell'osteria, sedersi, ordinare da bere e mettersi ad ascoltare l'oste.
Quella sera, però, il Bargianèla arrivò in ritardo all'appuntamento con i suoi avventori. Entrò nella locanda che era già buio e si lasciò andare sulla prima seggiola a portata di mano.
- Amici miei, sapeste che m'è accaduto! - esclamò, cercando di lisciare i capelli che gli si erano rizzati in capo. -Un boccale di vino, presto... ne ho proprio bisogno!
-Su, dài, racconta allora!
-Già, adesso vi dico... ma lasciatemi prima bere... ecco, ora va meglio. Lo sapete, no?, che domenica è la festa della Madonna di Campiglio. Bene, che faccio, stamattina, come ogni anno? Mi alzo presto, mi vesto a puntino e salgo a malga Ritort a comprare un vitello. Avrò bisogno d'un bel po' di carne, se voglio soddisfare tutti i pellegrini, i mercanti e i compaesani che festeggeranno la nostra patrona! Arrivo alla malga, scelgo il vitello, lo pago e mi accordo sulla consegna. Poi, tranquillo e beato... era un bel po' di tempo che non me ne andavo in giro per queste nostre belle montagne... prendo la strada del ritorno. Giunto all'altezza di un grosso masso, chi ti vedo venirmi incontro? Un'orsa gigantesca, cari miei, accompagnata da due orsacchiotti saltellanti. Lei, la madre, non era affatto simpatica e giocherellona come i suoi due cuccioli! M'è balzata addosso, sfiorandomi con artigli affilati e lunghi così: per fortuna c'era quel macigno alto a sufficienza per mettermi in salvo e con due balzi l'ho raggiunto, arrampicandomi sulla cima. Avreste dovuto vedermi: io, dall'alto, che con il bastone picchiavo a più non posso sulla testa di quel maledetto mostro. l'altra, l'orsa, che digrignava le zanne, sbuffava e sbavava inferocita! I due orsacchiotti, intanto, ai quali evidentemente non interessava la fine che mi attendeva, avevano raggiunto un boschetto lì vicino. E adesso che cosa potevo fare? Restare lassù tutto il pomeriggio, la notte e, magari, il giorno dopo? Se mi fossi addormentato, sarei scivolato di sotto e... E qui ebbi un'idea geniale. Non mi trovavo in quel frangente a causa, cioè, per merito della nostra Madonna? Bene: proprio a Lei mi rivolsi. «Madonna di Campiglio -urlai tra una bastonata e l'altra, - Madonnina bella, aiutami tu! Liberami da questo mostro e lasciami tornare a casa!». Non avevo nemmeno terminato la mia supplica, che dal bosco si alzò un urlo di spavento. In un primo momento pensai fosse un bambino che era caduto, che s'era fatto male: anche quello, ci mancava, un bimbetto innocente divorato da un'orsa e dai suoi cuccioli! Al secondo urlo, invece, fu l'orsa a bloccarsi, ad alzare il muso in alto e ad annusare preoccupata in quella direzione. Al terzo urlo, tutto fu chiaro: quello, era uno dei due orsacchiotti che stava chiamando sua madre per essere tolto da chissà quale impiccio. L'orsa non attese oltre: abbandonò me e il masso e si precipitò brontolando in aiuto al figlioletto. Da parte mia, la fretta fu ancora maggiore: ringraziai sottovoce la Madonnina di Campiglio, saltai giù dal sasso e... e... ed ecco mi qua, a raccontarvi la mia
avventura!».
In ricordo di quel brutto incontro, il Bargianèla fece dipingere un ex-voto, che appese alla parete della chiesa dedicata alla Madonna di Campiglio. Quel macigno, poi, che lo aveva salvato dagli artigli dell'orsa inferocita, ancora oggi è chiamato il Sasso del Bargianèla.

Il drago del lago di Nambino

Sono molti i laghi trentini che ospitano draghi e bestie di ogni genere e misura. Quello che dimorava da tempo immemorabile nelle acque del piccolo lago di Nambino, poco sopra Madonna di Campiglio, in verità non aveva mai fatto paura a nessuno. Se ne stava per mesi e mesi a sonnecchiare sul fondo del Iaghetto, nutrendosi dei pochi pesci che riusciva a trovare e delle ancor più poche alghe che crescevano a quella profondità. Solo di tanto in tanto metteva il muso fuori dall’acqua e, dopo essersi accertato che nessuno fosse nei paraggi, usciva a brucare l’erba rada dei prati intorno o a dare la caccia a qualche marmotta addormentata.
Un giorno, però, successe l'incredibile! In un colpo solo, finirono nello stomaco del dragone un paio di pecore, un vitello e persino il pastore che, spaventato, aveva assistito impotente alla carneficina.
La notizia si diffuse in un battibaleno in tutta Ia Rendena gettando i paesi nella costernazione e le famiglie nella paura. Ma cos’era successo? Possibile che un drago così tranquillo e inoffensivo, all’improvviso si risvegliasse e si mettesse a uccidere e a mangiare innocenti a destra e a sinistra? Nessuno, tuttavia, ebbe il coraggio di salire al lago di Nambino per vendicare l’amico morto con le sue bestie. Nessuno, tranne due baldi cacciatori della Val di Sole che, naturalmente dietro la promessa di una forte ricompensa, accettarono il compito di far giustizia.
Una domenica mattina, tutta la gente di Madonna di Campiglio, parroco in testa, accompagnò i due cacciatori fino ai piedi dell'ultima salita che portava al lago di Nambino.
- Meglio essere prudenti - disse a quel punto il cacciatore più anziano. - Voi aspettatemi qui e tu- continuò rivolto al compagno, - sèguimi a distanza. Se dopo aver udito uno sparo, non mi sentirete gridare, venite di corsa a vedere cos'è successo e allora toccherà a te vendicarmi! - concluse il cacciatore, con una gran pacca sulle spalle dell'amico.
L'uomo s'inerpicò con prudenza su per il sentiero e in dieci minuti fu sulle rive del laghetto. Pareva tutto tranquillo: un sole caldo e invitante si specchiava sullo specchio d'acqua, mentre i prati attorno si crogiolavano vellicati da una tiepida brezza.
Eccolo! Il cacciatore si fermò col cuore in gola: un enorme biscione verdastro, grosso come un toro di sei anni e con le squame ancora umide d'acqua, se ne stava acciambellato su un lastrone di pietra, col muso nascosto tra le due potenti zampe anteriori.
Il giustiziere, dopo un primo istante di terrore, si impose la calma: imbracciò il fucile, prese la mira con cura e sparò! La bestia non si mosse nemmeno e se non fosse stato per un rivolo di sangue che prese a zampillare dalla sua gola, chiunque avrebbe dato del somaro allo sparatore!
- Ce l'ho fatta! L'ho ucciso! Veniteeee... veniteee!
Quando, poco dopo, il corteo di Madonna di Campiglio giunse al lago, tutti si aspettavano di incontrare il cacciatore solandro col trofeo del drago. Lo trovarono, invece, a terra svenuto a pochi metri dal basilisco.
- Indietro... state attenti! - urlò il secondo cacciatore. Lui, di draghi, non se ne intendeva, ma quell'odore nauseante nell'aria gli aveva fatto capire prima degli altri che cosa doveva essere successo. Preso dall'entusiasmo per il colpo andato a segno, l'amico s'era avvicinato troppo al bestione e i miasmi velenosi fuoriusciti dal corpo assieme al sangue lo avevano tramortito. Venne quindi trascinato lontano dal cadavere del basilisco, caricato sul dorso di un mulo e accompagnato in gran fretta all'ospizio di Madonna di Campiglio per le cure del caso.
Ma le sorprese non erano terminate. Dopo qualche ora, quando l'aria attorno al drago tornò normale, il corpo del mostro venne rigirato per essere spostato e poi bruciato all'istante. Ed ecco che, tra le poderose zampe posteriori, apparve un grosso uovo candido. Un uovo di drago, anzi, di draghessa!
- Adesso conosciamo la causa dell'improvviso impazzimento della bestia - esclamò il parroco, prendendo in custodia il gigantesco uovo. - L'ormai prossima nascita della sua creatura, deve aver innervosito il drago oltre ogni misura e quel povero pastore ha pagato con la vita la nascita di una vita nuova!
Dopo qualche settimana ci fu gran festa, alla chiesa della Madonna di Campiglio: il cacciatore solandro si era nel frattempo ripreso e col suo compare ritirò il premio che gli era stato promesso. L'uovo del drago, invece, venne appeso alla parete della chiesa assieme alla pelle del basilisco, come ringraziamento per esser stati liberati dalla presenza pericolosa di quel mostro impazzito.

Il Bedù rosso di sangue

Un tempo le malghe costituivano uno dei capisaldi dell'economia delle nostre valli e quindi spesso divenivano oggetto di contese tra comunità confinanti. Contese che talvolta sfociavano in vere e proprie "guerre" di conquista, come capitò alle genti di Vigo e Villa Rendena.

Da alcune generazioni, ormai, le genti di Vigo e Villa erano in lotta per una questione di confini. "Sono troppo preziosi i pascoli e la malga del monte Stracciòla per lasciarceli scappare", pensavano gli uni e gli altri e ogni occasione era buona per accapigliarsi e bastonarsi a vicenda.
I più violenti - ma anche, forse, quelli che in realtà potevano vantare maggiori diritti sulla Stracciòla - erano senz'altro i pastori di Vigo Rendena, che un giorno si decisero a chiedere aiuto agli amici di Daré, di Marzeniga (uno dei molti villaggi rendenesi andati distrutti per calamità) e di Javré per dare finalmente una lezione ai loro nemici di Villa, di Verdesina e di Bragònero (un altro villaggio andato distrutto).
Si era nel pieno dell'estate del 1324: mancava poco al mezzogiorno d'una calda giornata di fine agosto, quando la spedizione punitiva della gente di Vigo, spalleggiata dai loro temporanei alleati, giunse in vista della malga. I pastori e i malgari di Villa erano chiusi nella casàra a mangiare e proprio nulla lasciava presagire quello che stava per accadere.
Gli assalitori piombarono all'interno della malga con gran fracasso di randelli, urla e forche: i malcapitati di Villa vennero immobilizzati all'istante e ridotti al silenzio con alcune robuste bastonate in testa e sulla schiena. Non contenti, quelli di Vigo radunarono le vacche al pascolo (ne contarono ventotto, più un toro) e le spinsero nel burrone sottostante. Infine, distrussero tutto il burro e le forme di formaggio che riuscirono a scovare nella casàra.
Vi lascio immaginare lo sfracello di tante mucche dopo il lungo volo giù per il pendìo della forra - i vecchi raccontarono per anni dell'acqua rossa di sangue del torrente Bedù - e la rabbia di quelli di Villa nel vedere il loro lavoro, costato tanta fatica e sudore, svanire sotto l'impeto dell'ira.
Intervennero le guardie, che arrestarono i caporioni di Vigo, di Daré, di Javré e di Marzeniga: gli esagitati furono condotti a Trento e lì processati.
Il 20 settembre di quello stesso anno i giudici sentenziarono: i colpevoli avrebbero dovuto risarcire le ventotto vacche e il toro uccisi nel corso della spedizione, nonché restituire ai pastori di Villa tutto il formaggio e il burro andati distrutti.

Servizi

Salute, benessere e assistenza

Richiedi assistenza

Il servizio permette di richiedere assistenza al Comune nella fruizione di un servizio online

Ulteriori dettagli
Anagrafe e stato civile

Richiesta di certificati anagrafici

Il servizio permette di richiedere e ottenere uno o più certificati anagrafici.

Ulteriori dettagli
Giustizia e sicurezza pubblica

Segnala disservizio

Il servizio permette di segnalare un disservizio all'Amministrazione comunale

Ulteriori dettagli
Autorizzazioni

Sportello Unico Attività Produttive (SUAP)

Nel portale SUAP è possibile consultare l'elenco dei procedimenti di competenza del SUAP e compilare, firmare e inviare una pratica per l'avvio di un'attività.

Ulteriori dettagli

Modalità di accesso

L'accesso non presenta barriere architettoniche ed è ben segnalato

Indirizzo

Orario per il pubblico

Lun
08:30-12:30
Mar
08:30-12:30
Mer
08:30-12:30
Gio
08:30-12:30, 14:30-16:00
Ven
08:30-12:30

Valido dal: 03/11/2021

Ulteriori informazioni

Sede di

Uffici

Ufficio Commercio e Pubblici esercizi

L'ufficio si occupa dei titoli autorizzatori di competenza comunale necessari per l'esercizio di attività economiche.

Ulteriori dettagli
Uffici

Ufficio Custodia forestale

L’ufficio ha come obiettivo la salvaguardia del patrimonio naturale, faunistico e paesaggistico

Ulteriori dettagli
Uffici

Ufficio Fondiario

Gestione pratiche patrimonio comunale

Ulteriori dettagli
Uffici

Ufficio Ragioneria

L'ufficio si occupa della gestione finanziaria del Comune

Ulteriori dettagli
Sito web e servizi digitali OpenCity Italia distributed by Comunweb · Accesso redattori sito